Le vicende storiche e religiose di questa chiesa si sono riverberate più volte nella storia del carnevale eporediese condizionandolo. Grazie ad una relazione riguardante la Consegna dei redditi della Compagnia del Suffragio dell’anno 1661 apprendiamo che “ … la Compagnia ha gli infrascritti obblighi […] negli ultimi tre giorni di carnevale si fanno quaranta hore con sermone … per deviare il popolo dalli spettacoli et peccati che sogliono in tal tempo dalla maggior parte dei Cristiani commettersi et in tal maniera placare l’ira d’Iddio da essi irritata …”[1].
In queste frasi l’influsso del pensiero gesuita all’interno della Compagnia del Suffragio è evidente. Il forte contrasto tra luce e oscurità all’interno della chiesa, al momento della preghiera, giocava un ruolo fondamentale nel potere persuasivo che le Quarant’ore dovevano esercitare: il buio atterriva i fedeli ma la luce e la bellezza dell’apparato li rallegrava. Le Quarant’ore finivano in questo modo col diventare quasi uno degli spettacoli più attesi del Carnevale, concorrendo efficacemente con i divertimenti della festa profana, controllandone i tempi e gli spazi e tentando quasi di santificarli. La presenza delle Quarant’ore nella chiesa della Compagnia del Suffragio è testimonianza indiretta, la prima in assoluto sino ad oggi, dell’esistenza del Carnevale ad Ivrea già nel 1661. L’intento era quello di stupire e coinvolgere emotivamente e psicologicamente il popolo dei fedeli. Le stesse motivazioni stavano alla base della proposta liturgica dei filippini che però utilizzarono gli strumenti che avevano a disposizione per coinvolgere i fedeli nella “gioia” della messa: dilettare giovando e giovare dilettando. Non a caso questa differenza viene definita contrasto liturgico poiché non era una diatriba religiosa ma una differente visione di come si doveva sviluppare la liturgia all’interno della messa. I filippini utilizzarono il cantato e le rappresentazioni teatrali per operare nel tempo sacro della quaresima.
Ad Ivrea la congregazione degli Oratori di San Filippo Neri non ebbe mai una Casa su cui poggiarsi per diffondere il proprio carisma ma, nel 1690, l’Arcidiacono e Vicario Foraneo Gian Luigi Rambaudi eresse a sue spese un altare dedicato a San Filippo Neri nella chiesa della Compagnia del Suffragio (l’altare, ancor oggi esistente, è quello posizionato sulla navata di destra entrando nella chiesa). Diverse sono state le tecniche ammesse dai filippini in campo religioso che furono estese ai momenti festivi ed in particolare al Carnevale. Ma il collegamento fra i filippini ed il Carnevale di Ivrea è ancora più stretto perché, fra i documenti rinvenuti nell’Archivio della confraternita del Suffragio ad Ivrea, vi è una richiesta compiuta dalla Congregazione Generale di Carità affinché il Conte Perrone velocizzi le pratiche per consegnare le scene e le strutture teatrali in suo possesso all’Abbà Giovanni Michele Scala che voleva affittarle per il prossimo Carnevale del 1762. Ad oggi questo è l’unico nome in possesso degli studiosi riguardante il capo della festa cittadina prima che iniziassero le registrazioni notarili nel 1808 in quello che viene definito il Primo Libro dei Verbali del Carnevale.
Vi è un ulteriore legame fra questa chiesa ed il Carnevale: la festa eporediese si sviluppò a partire da alcune mascherate presenti nel medioevo nella città di Ivrea, in particolare quelle citate nello statuto del 1433, che si svolgevano in occasione della festa di San Nicola e del calendimaggio. In queste occasioni i giovani eporediesi si travestivano e spaventavano chiunque incontravano e, non paghi, pretendevano un pasto gratuito dai propri insegnanti, si arrivò a parlare addirittura di “cattura del maestro di scuola”! Questi atti di bullismo non scomparvero con l’affievolirsi del sentimento di devozione nei confronti di San Nicola perché vennero ripresi dalle badie cittadine (ed il Giovanni Michele Scala sopracitato fu uno dei loro capi) all’interno del culto di San Sebastiano differendo la data dell’estorsione dal 6 di dicembre al 20 gennaio. Il culto di San Sebastiano, organizzato all’interno dell’omonima confraternita, confluì dopo la metà del XVIII secolo con il culto di San Rocco all’interno della Compagnia del SS. Nome di Gesù, perché il vescovo Villa si vide costretto ad abbattere la cappella dedicata al martire per poter allargare il Duomo eporediese. Dopo le guerre napoleoniche, quando tutte le confraternite e le loro chiese cessarono di operare, grazie all’intervento del Maire Zanetti la chiesa del Suffragio venne riaperta nel 1802 ma in essa vennero riuniti i culti delle confraternite di San Sebastiano, di San Rocco e del Suffragio sotto la nuova titolazione di confraternita di Santa Croce.
di Danilo Zaia
[1] La frase citata viene ripresa letteralmente da P. G. Robesti nelle sue Notizie Stoiche risguardanti le antichità della città d’Jvrea (1763).